The voice of Cariplo Factory
Smart working: ci troviamo di fronte alla nuova rivoluzione industriale?
Rivoluzione è una parola che spaventa. Innovazione è una parola che affascina. Ma è cambiamento la parola migliore per descrivere le infinite opportunità che lo smart working ci prospetta. Come tutti cambiamenti può fare paura all’inizio, ma basta guardare al passato per capire che è quasi impossibile resistere alla sua forza trasformatrice. Allo stesso tempo, però, farlo accadere è tutt’altro che semplice. Servono coraggio e disponibilità per riconoscere l’impatto che lo smart working può avere non solo sull’organizzazione del lavoro ma anche sulla società in cui viviamo. La storia ci ha insegnato che le novità più dirompenti arrivano al termine di un percorso, più o meno lungo, di avvicinamento. La pandemia globale, invece, ci ha imposto all’improvviso lo smart working. Cogliendoci impreparati. Durante il lockdown, la preoccupazione è stata allestire mini-uffici domestici, riorganizzare la vita familiare, adottare soluzioni anti-isolamento. Poi è venuto il momento di pensare al rientro. Ma il punto della questione è: come rientrare?
Grazie allo smart working, che finora è stato soprattutto home working, chiunque ha toccato con mano che “andare a lavorare” è un impegno non da poco. In termini di tempo (le ore passate in auto, moto o metropolitana ogni giorno) e soldi (il costo del viaggio andate e ritorno dall’ufficio, il pranzo). Senza contare l’impatto di tutte queste attività sulla qualità dell’aria delle nostre città, un costo difficilmente stimabile ma probabilmente il più ingente di tutti (la Regione Lombardia sta valutando il lavoro agile come strumento antismog). Oggi che esiste un modello alternativo, “andare a lavorare” non può più avere lo stesso significato di prima, deve sviluppare nuovi contenuti e nuovi modelli di relazione.
Non sono solo le persone ad avere fatto i conti con lo smart working. L’hanno fatto anche le aziende. Soprattutto quelle dei servizi, senza il problema di un impianto produttivo da alimentare e manutenere, ne hanno intuito le grandi potenzialità. Lo abbiamo visto con i grandi player del tech, tradizionalmente i più reattivi a cogliere queste opportunità: Twitter è stato il più radicale, offrendo a tutti i dipendenti (che ne faranno richiesta) la possibilità di lavorare da casa… per sempre. Google ha annunciato lo smart working fino all’estate 2021, con un bonus di mille euro per attrezzare la casa in base alle nuove necessità. Facebook invece sta lavorando per offrire il lavoro da remoto al 50% dei propri dipendenti.
D’altronde che il lavoro agile fosse un modello efficace ed efficiente lo dicevano nel 2018 i numeri dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano. Una ricerca effettuata su un campione dei quasi 500 mila lavoratori italiani che lo praticavano indicava una popolazione più soddisfatta di quella impegnata nel lavoro tradizionale sia per gli aspetti organizzativi (39% contro 18%) sia per quelli relazionali (40% contro 23%).
COVID-19, un punto di non ritorno
Da questo punto di vista, il COVID-19 rappresenta un punto di non ritorno. Al di là dei temi contrattuali e normativi, l’opportunità di una nuova organizzazione del lavoro con formule flessibili, in grado di alternare lavoro in presenza e lavora da remoto, è irrinunciabile. Occorre progettare nuovi layout per gli spazi ma anche nuovi strumenti di lavoro che, per esempio, facilitino le attività di ideazione, progettazione e collaborazione, sempre più ad alto valore aggiunto e difficili da svolgere in remoto. L’ufficio diventa così un luogo di incontro, di scambio, di contaminazione, tanto per usare un termine caro a chi si occupa di innovazione. Mentre il lavoro individuale, più operativo, può essere svolto in modo più efficiente da casa, dalla biblioteca, dal bar. E, perché no, dalla spiaggia (a proposito, le Barbados hanno annunciato un visto di un anno per favorire gli smart worker interessati a lavorare dai Caraibi).
L’impatto che un simile cambiamento potrà avere sulla vita delle persone è immenso. Per prima cosa perché, senza alcuna incidenza sul monte ore lavorativo, le persone si troverebbero a disposizione più tempo da destinare alla famiglia, al volontariato, allo sport. Soprattutto, però, potrebbero godere della libertà di organizzare autonomamente questo tempo, con notevoli benefici in termini di work-life balance. Insomma, più tempo e più libertà di organizzarlo. Esiste qualcosa di più prezioso?
Una cultura aziendale basata su fiducia e responsabilità
C’è dell’altro. Questa nuova organizzazione, basata sulla fiducia e la responsabilità, potrebbe creare i presupposti per una nuova cultura aziendale basata sui risultati, sul merito, sulla qualità del lavoro. Concetti di cui si parla da tempo ma ancora da compiere pienamente. Proprio come l’approccio imprenditoriale al lavoro che viene richiesto a qualsiasi lavoratore, il quale però raramente si trova nelle condizioni per metterlo in pratica veramente. Il mix di lavoro da remoto e lavoro, inoltre, in presenza sarebbe la combinazione perfetta anche per portare a compimento due tra le soft skill più gettonate da qualsiasi responsabile delle risorse umane: la capacità di lavorare in squadra, in modo complementare e sinergico rispetto agli altri, abbinata di un elevato grado di autonomia nel portare avanti le attività.
Non è teoria. A confermare questi trend ci sono ancora i numeri dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano che attribuisce al lavoro agile un incremento di produttività del 15% per ogni lavoratore insieme a una riduzione del tasso di assenteismo del 20%, oltre a registrare un migliore equilibrio tra vita professionale e vita privatanell’80% dei casi.
Si tratta di un cambiamento epocale, potenzialmente in grado di trasformare non solo i modelli organizzativi delle imprese e la quotidianità di milioni di persone, ma il concetto stesso di città. Il tessuto urbano potrebbe perdere quella tendenza monocentrica che si è registrata negli ultimi decenni a favore di un modello policentrico che appartiene maggiormente alla tradizione del nostro Paese. E tutto questo sarebbe legato al lavoro da remoto? A una diversa turnazione delle persone in ufficio? Può sembrare eccessivo, sproporzionato. Ma a ben guardare è quello che succede quasi sempre con i grandi cambiamenti.
La storia del codice a barre
Era l’inizio degli anni 80 quando un imprenditore innovativo della grande distribuzione italiana introdusse il codice a barre e installò le prime casse con lettore laser in sei dei suoi supermercati. Obiettivo: migliorare la gestione del magazzino e accelerare la battitura dei prezzi, smaltendo più velocemente le code. Cosa accade all’inizio? Grandi resistenze. I fornitori erano riluttanti all’idea, convinti che generasse solo un aggravio di costi. Non solo i sindacati, ma perfino l’associazione di categoria gli fece la guerra. A distanza di quasi 40 anni, è impossibile pensare di fare la spesa senza il codice a barre, così come senza di esso non sarebbe possibile tenere costantemente riforniti i magazzini. Anche perché la tecnologia, nel frattempo, è evoluta: il codice a barre aiuta anche i consumatori a capire le caratteristiche di qualunque prodotto, migliorando la loro esperienza d’acquisto. E, allo stesso tempo, permette ai responsabili della logistica di conoscere, in tempo reale, quali sono i prodotti più comprati e come calibrare il mix di rifornimento. E ancora: il codice a barre ha liberato i dipendenti chiamati a prezzare ogni singolo prodotto da un lavoro ripetitivo e a basso valore aggiunto, permettendo loro di dedicarsi ad altro. Impossibile dire se questa innovazione ha portato a dei tagli di personale. Astraendoci dal caso specifico, però, se è vero che alcuni lavori non esistono più, è anche vero che la moltiplicazione dei servizi ha in realtà aumentato l’occupazione: secondo i dati Istat, all’inizio del 2014 gli occupati in Italia erano poco più di 22 milioni mentre alla fine del 2019 superavano i 23,4 milioni.
La storia del codice a barre è un esempio perfetto per capire quanto la resistenza al cambiamento sia sempre stata forte. Non c’è da stupirsene. La cosa che deve spaventa, invece, è la prospettiva di perdere questa opportunità che, proprio nei momenti difficoltà come quelli che stiamo vivendo e che ci aspettano nei prossimi mesi, diventa ancora più preziosa.
Uno strumento criminale chiamato bicicletta
Di storie come quelle del codice a barre ce ne sono moltissime. Una che mi sta particolarmente a cuore è legata alla bicicletta, bollata all’alba del Novecento da parte di Cesare Lombroso come strumento criminale: «Nessuno dei nuovi congegni ha assunto la straordinaria importanza del biciclo, sia come causa sia come strumento del crimine». Alla base di questo giudizio c’era la velocità che la bicicletta permetteva alle persone che la utilizzavano. Era possibile coprire velocemente distanze che a piedi richiedevano molto tempo, si poteva raggiungere più facilmente il luogo di lavoro, la casa dei familiari, i campi coltivati. E, a dorso di bicicletta, si potevano perfino trasportare piccoli e medi carichi pe viaggi di breve gittata. La bicicletta, insomma, offriva alle persone nuove possibilità di movimento, di lavoro e di vita. Esattamente come lo smart working.